La nostra ospite di oggi è Gaia Zaccagni, studiosa di filologia e letteratura bizantina e neogreca.

Dopo aver conseguito il suo dottorato di ricerca in Filologia e Letteratura Bizantina, Gaia Zaccagni ha insegnato in diverse università italiane. Attualmente insegna Lingua e Letteratura Neogreca presso l’Università di Cipro a Nicosia, dove vive stabilmente da oltre dieci anni. Nel corso della sua carriera ha curato edizioni e pubblicato numerosi articoli e monografie su argomenti quali la lingua, la letteratura e la filologia neogreca e bizantina. Dal 2014 cura la collana Isalo per le edizioni Ensamble, che comprende autori greci e ciprioti in traduzione italiana, e dal 2019 dirige l’analoga collana “I Gelsomini di Cipro”, per le edizioni ETPBooks.

Inoltre, è autrice di tre raccolte di poesie (“Sparse nel vento”, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2007; “Εν πλω πάντα κλειστή”, ed. Melani, Atene 2014; “Altrove”, ed. Ensamble, Roma 2016). Tra i suoi interessi occupa un posto privilegiato anche la musica greca, sia sul piano teorico che pratico.

Noi l’abbiamo intervistata* in occasione dell’uscita del suo libro “Ma che vita è questa? 85 canzoni rebetike della crisi“**, pubblicato da ETPbooks: un’antologia di 85 canzoni (tradotte in italiano con testo a fronte) corredata di un lungo testo introduttivo, che ripercorre la parabola storica del rebetiko, della sua epoca e dei suoi protagonisti, offrendo al contempo un resoconto accessibile e avvincente dei suoi caratteri distintivi.

Nella discussione che segue Gaia Zaccagni ci racconta com’è nato questo libro e ci parla appunto del fenomeno del rebetiko, del contesto storico-politico in cui esso nacque, dei suoi tratti essenziali, del suo fascino, insomma di tutto quello che lei definisce la “dimensione rebetiko”. 

Cominciamo con una nota personale. E’ da tempo che si occupa, in qualità di docente e di studiosa, della letteratura neogreca. Ci vuole parlare un po’ di come è nato questo suo interesse per la lingua e la cultura greca?  

Il mio interesse, anzi, per meglio dire, la mia passione per la Grecia si è manifestata in me già da quando ero piccola, quando con i miei genitori, entrambi filelleni e docenti di greco antico, trascorrevamo intere estati viaggiando in lungo e in largo per la Grecia e le sue isole. In particolare, l’isola di Lesbo per me è stata la patria elettiva, il luogo del mondo dove più mi sento a casa. Lì conobbi la mia prima παρέα [compagnia di amici] greca e a dodici anni decisi di iniziare ad imparare il greco moderno. Inizialmente, è stato proprio attraverso le canzoni che sono entrata in contatto vivo con la lingua. Le canzoni di Mikis Theodorakis e Manos Hadjidakis mi hanno fatto venire in contatto con la poesia di Ritsos, Seferis, Elitis, Gkatsos… Poi è seguito lo studio del greco antico e all’università ho approfondito ancora di più, studiando, oltre che la letteratura antica e moderna, anche la letteratura e la storia bizantina (su cui alla fine mi sono laureata), in modo da non lasciare alcuno iato storico-culturale nella mia conoscenza del mondo greco.    

Il libro “Ma che vita è questa? 85 canzoni rebetike della crisi” è nel contempo un’antologia di testi del rebetiko e una breve storia del genere e dell’epoca da cui esso scaturì. Quando e come iniziò il suo rapporto con il mondo del rebetiko? Com’è nato questo libro?

Il rapporto con il rebetiko è iniziato per me in modo molto naturale e spontaneo, in quanto faceva parte della mia “quotidianità greca” che andavo ricercando continuamente, anche vivendo in Italia. Nei ritrovi con amici, mi rendevo conto che le canzoni rebetike costituivano un comune codice comunicativo, in grado di stimolare l’osmosi empatica anche fra persone sconosciute. 

Ho tenuto molti corsi su questo soggetto in università italiane (Roma, Venezia, Trieste) e a Cipro e ho sperimentato l’efficacia di utilizzare le canzoni rebetike come strumento didattico per l’insegnamento della lingua e della cultura greca agli stranieri. Sono profondamente convinta che non si possa insegnare una lingua prescindendo dalla cultura e dalle tradizioni del popolo che la parla. Tanto più se la lingua che si insegna è il greco. Queste canzoni rappresentano proprio uno spaccato di grecità senza tempo, sono lo specchio di una Grecia tesa tra due poli (l’apollineo e il dionisiaco), tra due mondi (Oriente e Occidente), tra due modi di essere (classico e romantico).

Scissa, perennemente alla ricerca di un’identità. Un’identità indefinibile in termini netti e a tinte forti, e proprio per questo ricca, intensa e profonda, piena di chiaroscuri, di sfumature, densamente e intrinsecamente poetica.

La gestazione di questo libro è durata svariati anni, in cui non mi sentivo in grado di mettere nero su bianco le osservazioni e i pensieri che preludono l’analisi del fenomeno rebetiko. Questo perché mi trovavo – e tutt’ora mi trovo – immersa nel tentativo di comprendere un modo di essere, di ripercorrere i tratti di quella che amo chiamare la “dimensione rebetiko”: un sistema organizzato su basi a circuito chiuso, autoreferenziali, sistema densamente poetico, dove per poetico si intende capace di rievocare atmosfere, mondi, dimensioni parallele da cui esso stesso proviene e a cui tende a rimandare. Offrirne una qualche definizione non arbitraria e riduttiva è impresa non solo ardua, ma direi per molti versi impossibile e addirittura forse non necessaria.

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Una delle virtù del volume è appunto il fatto che racconta il rebetiko attraverso la storia e gli avvenimenti che ne hanno condizionato la nascita e l’evoluzione; che tratta, cioè, il fenomeno del rebetiko sia come prodotto che come specchio di un’epoca e di un contesto storico precisi. Quali riflessioni hanno motivato questa impostazione? E’ necessario, secondo lei, conoscere la storia del genere per capire e fruire la musica rebetika?

Le canzoni popolari rebetike ci offrono, per così dire, delle istantanee di vari aspetti della vita quotidiana dell’epoca, testimoniano il fermento di cambiamento, sono il termometro della società, delle classi più basse, dei proletari e dei lavoratori. Sono canzoni della crisi, sia nel senso letterale del termine (cfr. le crisi storiche del 1922, 1929, 1932, 1940), sia, in senso lato, crisi d’identità, crisi relazionali, interpersonali, culturali. Il viaggio attraverso queste canzoni ci offre delle immagini vivide, pregnanti che colgono i molteplici tratti di crisi e ne fanno piccoli gioielli-testimonianze di un passato che continua ad essere attuale. La cosa commovente è che ancora oggi queste canzoni sono in grado di toccare le corde più profonde della nostra sensibilità, e, al di là dell’uso edonistico che se ne può fare, esse arrivano a risvegliare memorie dal subconscio, ritornando attuali ed eloquenti, come monumenta senza tempo.

Naturalmente, per avere il privilegio di comprendere realmente il rebetiko, bisogna viverlo dall’interno, passare ore, serate, giorni interi ad ascoltare queste canzoni, impararne l’andatura modale[1], il ritmo, sentirsene palpitare dentro i versi, così semplici e diretti, imparare a parlare e a comunicare nella particolare lingua dei rebetes, una sorta di gergo (αργκό) in cui si mescolano parole turche, italiane, termini tecnici appartenenti a realtà specifiche (la lingua del mare, della fabbrica, del fumo, della prigione etc.).

A proposito, lei riporta nell’introduzione del libro un passo dalla “Rebetologia” di Petropoulos, in cui egli affermava che: “Mi è molto difficile spiegare agli stranieri cosa furono le canzoni rebetike. Mi è ancor più difficile spiegare la stessa cosa ai miei connazionali”. A cosa si deve, secondo lei, questa difficoltà? Cosa rappresenta il rebetiko per lei?

Certo, la situazione di oggi, anno in cui il rebetiko è stato inserito nel patrimonio immateriale dell’Unesco, è sicuramente ben diversa da quando Petropoulos, nel 1968, pubblicò clandestinamente il suo libro-enciclopedia sulle Canzoni Rebetike. Ma resta tutt’ora estremamente vero che è difficile spiegare agli stranieri, e forse ancor più ai greci stessi, cosa sia stato, storicamente, il rebetiko e cosa sia a tutt’oggi, come mai esso continui ad essere la musica per eccellenza con cui buona parte dei greci scelgono di divertirsi o di accompagnare momenti della vita quotidiana.

Il rebetiko per me rappresenta un mondo, o meglio, come ho già detto, una “dimensione” a se stante. Mi piace chiamarla così, perché effettivamente si tratta di una dimensione “a parte”, di un mondo con sue proprie regole, propri codici comunicativi e comportamentali, con una sua lingua propria e una scala di rapporti e di equilibri che s’intrecciano, all’interno e all’esterno, in molteplici forme e percorsi musicali. Ascoltare canzoni rebetike procura  una sensazione che va ben oltre quella di una semplice, passiva ricezione uditiva di un fenomeno musicale. Tutti i cinque sensi sono chiamati in causa. L’udito, l’olfatto, il gusto, la vista  e il tatto. E, forse, un sesto senso che ha sede in un punto indefinito tra il cuore, le viscere e il cervello. E’ quest’ultimo elemento che rende difficile estrinsecare a parole le cause e gli effetti che entrano in gioco quando si vive la “dimensione del rebetiko”.

Risulta davvero difficile districarsi nell’infinità di materiale che si trova in giro sull’argomento. Ci sono notizie confuse, false, veritiere del tutto o in parte. Osservazioni acute, testimonianze preziose dei protagonisti, studi di carattere più o meno scientifico, che tentano di dare una qualche forma a ciò che per sua natura si trova ad essere refrattario a qualunque tentativo di “formalizzazione”. Si è detto e si dice tanto sul rebetiko, anche se forse ancora oggi in Italia pochi sono coloro che riescono a farsi un’idea reale di cosa esso significhi.

Quello che ho voluto proporre nel mio libro “Ma che vita è questa?” è un’immagine per quanto possibile lineare, chiara, raggiungibile e fruibile anche dai non “addetti ai lavori”, di quello che il rebetiko ha rappresentato e rappresenta tutt’ora nel panorama della Grecia moderna.

Quante volte mi sono trovata a cercare di “spiegare”, di illustrare ad amici italiani la realtà da cui scaturisce il rebetiko. O anche più semplicemente, cosa vuol dire ascoltare questa musica ed amarla, sentirla riecheggiare dentro, con tutti i suoi rimandi a mondi, personaggi, atmosfere, storie altrimenti inconoscibili.

Il rebetiko è la canzone di tutti coloro che si sentivano di collocare se stessi fuori dai confini prestabiliti del “perbenismo” e dell’ “establishment”. La canzone dei perseguitati, degli emarginati, degli sfruttati, di coloro che in ogni frangente della loro vita vedevano ergersi dinnanzi a sé come una barriera la propria estrazione sociale, la situazione economica e l’ambiente in cui vivevano.

lexikopoleioGaia Zaccagni e il gruppo musicale Χρήσιμοι Κρίσιμοι / Utili Critici in occasione della presentazione del volume presso la libreria “Lexikopoleio”.

Come spiega lei l’interesse che il rebetiko ha destato negli ultimi anni all’estero e, nella specie, in Italia?

Credo che il motivo principale dell’interessamento degli stranieri per il rebetiko sia derivato dalla profonda crisi che la Grecia ha dovuto affrontare negli ultimi anni. Dal mio punto di vista, come ho ampiamente trattato nel mio libro, il genere “rebetiko” esiste proprio come prodotto della crisi, dove con crisi si intende un evento straordinario, caratterizzato da una visibilità esterna  che irrompe nella vita di una comunità disgregandone gli equilibri e facendone saltare i meccanismi di funzionamento. E’ un momento di perturbazione, uno scarto che altera i processi esistenti all’interno e all’esterno del sistema sociale colpito, una transizione in cui regole e norme del funzionamento ordinario appaiono inutili a risolvere quanto di problematico è emerso. Caratterizzata da ripercussioni tali da arrivare a pregiudicare l’esistenza duratura ed autonoma di un’organizzazione sociale, costringe ad agire sotto un vincolo temporale stringente, richiede scelte e decisioni. Data la complessità ed eterogeneità del fenomeno, non esiste una nozione unica dell’evento critico ed è abbastanza complesso delineare un quadro di peculiarità che possa riproporsi al verificarsi di ogni manifestazione critica. Si può dire che la crisi innesca mutamenti sociali che avvengono in maniera repentina o graduale, seguono un percorso lineare, discontinuo o ciclico, assumono una direzione precisa o proseguono in maniera casuale, riguardano l’intera società o singoli sistemi, possono avere origini endogene o esogene, obbediscono a dinamiche che lasciano un certo margine all’iniziativa personale o collettiva oppure avvengono in maniera spontanea, non prevedibile. Un processo lungo il quale si rivela la compresenza di situazioni fra loro incompatibili anche per effetto di un’accentuazione delle innovazioni delle quali solitamente le crisi sociali sono portatrici. Nel concetto di crisi si amalgamano, quindi, l’intenzionalità di innovare con il rischio che tali innovazioni incrementino le incompatibilità – rispetto a valori, azioni, regole -, il che potrebbe preconizzare anche un crollo del sistema sociale. Diversamente, si determina una fase di destabilizzazione che approda poi a una nuova e diversa condizione di stabilità. Secondo questo approccio, comunque, va attribuita alle innovazioni la capacità di alterare l’assetto preesistente e di spiegare l’origine della crisi. Da un punto di vista sociologico, infatti, il conflitto tende a ridurre i rapporti ad una logica amico-nemico, mentre la crisi è una situazione più complessa, attraversata da tensioni e contraddizioni che portano gli individui e i gruppi ad esitare sulla condotta da seguire perché essa mette in discussione regole ed istituzioni. La crisi determina un cambiamento subitaneo, inatteso, altera l’ordinarietà dell’agire sociale e provoca una condizione, anche prolungata, di incertezza e squilibrio; alle difficoltà oggettive si uniscono quelle soggettive, vale a dire saper individuare nei momenti di crisi la scelta corretta da fare.

Le vicende storiche che vedono coinvolta la Grecia, dalla fine del XIX secolo, per tutto il XX secolo, fino ad oggi, sono pervase da questo genere di crisi, durature nel tempo, che sfociarono in catastrofi, conflitti sociali, periodi di dittatura, guerra ed arrivarono addirittura a causare la dolorosissima guerra civile (1946-1949). Una storia drammatica, sempre determinata da tensioni, verso l’esterno e verso l’interno, che vedono la società greca in bilico per tentare di non sprofondare del tutto.

Le analogie che si possono riscontrare con il nostro mondo di oggi, cento anni dopo gli eventi qui trattati, sono davvero impressionanti e fanno riflettere sulla ciclicità della storia che torna a ripetersi, sul susseguirsi uno dopo l’altro dei momenti di crisi. Il loro dilatarsi su tutti i fronti diventa sintomo e carattere denotativo della società capitalistica moderna in cui viviamo.

rebetesGruppo di “Rebetes”, Pireo, 1933. In piedi si riconoscono, fra gli altri, due dei maestri del rebetiko. A sinistra, con il bouzouki, Markos Vamvakaris, denominato il “Patriarca del Rebetiko”. In centro, con la chitarra, Ghiorgos Batis. Fonte: Wikimedia Commons, Rembetes Karaiskaki 1933.  

Le canzoni rebetike sono note per i loro versi semplici ma efficaci, compatti e densi di significato. Quale dei testi tradotti nel libro ritiene lei che esprima al meglio lo spirito e l’essenza del rebetiko? 

Dal punto di vista formale, le canzoni rebetike tendono ad adottare schemi espressivi e modelli narrativi provenienti dalla poesia popolare e dal canto demotico. Si tratta, cioè, della tendenza a utilizzare ciò che possa essere facilmente assorbito, vale a dire la parola essenziale e semplice, propria dell’espressione orale del popolo.

La metrica, la rima, l’interdipendenza semantica delle immagini, collegata alla loro armonizzazione sonora, rimandano alla composizione di una “scrittura organizzata”. Dal pensiero, alla lingua. Il dato più rilevante e significativo nel rebetiko è la stretta relazione tra l’arte e la realtà. L’una è lo specchio dell’altra, e le influenze sono reciproche.

I testi delle canzoni rebetike sono scritti in una lingua orale, colloquiale, sulla quale si innestano numerosi termini intraducibili (per lo più di provenienza straniera – turca, araba, italiana etc.), che rappresentano concetti funzionali alla definizione di una determinata situazione, ma che allo stesso tempo risultano sfocati e confusi, a causa del fatto che sono essi stessi imprigionati in un sistema semantico chiuso e autoreferenziale. Per questo motivo, la scelta di tradurre le canzoni presentate nel libro “Ma che vita è questa?” ha come unico scopo quello di dare un’idea complessiva dei contenuti, senza peraltro poter rendere le sfumature e soprattutto i rimandi emotivi che tali termini innescano, dei quali una spiegazione letterale viene proposta nel Glossario.  Essendo questi termini così intensi e densi di significato, la parola si trova impossibilitata a parlare delle cose, perché dietro ad ogni oggetto si aprono mondi e sfumature impercettibili, che sarebbe riduttivo voler imprigionare in un senso univoco.

Questa, del resto, è la causa dell’ “intraducibilità” della poesia: nessuna traduzione può fare promessa di assoluta fedeltà all’originale. Da qui è derivata la scelta di lasciare alcuni di questi termini “specifici” in originale.

Fra i testi tradotti nel libro, la canzone che ritengo forse più rappresentativa, anche per la vicenda biografica a cui è legata, è il Pitocco (Μπατἰρης), di Vaggelis Papàzoglu. 

Sono un pitocco dalla nascita, in questo mondo,
e, per questo, mai le mie labbra faranno un sorriso.
Vado in cerca, disperato, di trovare la mia sorte, per chiederle
se ho il diritto di vivere libero.
E poi le dico: sorte mia, fammi il favore,
fa che mi cambino nome e non mi chiamino pitocco!
E la mia sorte mi risponde che, per quanto io faccia,
pitocco sono nato e pitocco morirò 

Il tema della povertà fu molto caro a Papàzoglu che, come molti altri, la sperimentò in prima persona. La canzone è inedita, in quanto la censura non la approvò, per via del v. 3: la commissione chiese a Papàzoglu di sostituire il termine ‘libero’ («ελεύθερος») con ‘felice’ («ευτυχισμένος»). Egli rifiutò, dal momento che «felice può essere solo chi vive libero!». Da allora, smise di comporre e durante l’occupazione tedesca, ormai né libero né felice, smise anche di cantare: «gli uccelli non cantano quando annotta». 

Inoltre, l’ultimo distico della canzone O dervishis (1933) di Markos Vamvakaris descrive con semplicità e precisione come nasce una canzone rebetika e ne esprime in modo pregnante la testualità dell’azione: 

Μα εγώ δεν είμαι ποιητής τραγούδια να ταιριάζω
μου τα φέρνει ο ναργιλές και τα κατασκευάζω 
 
Ma io non sono un poeta, capace di mettere su delle canzoni
me le porta il narghilè ed io le costruisco 

In questo distico sono concentrati i fondamentali “principi di poetica” che caratterizzano la produzione del rebetiko. Si tratta di quattro parole chiave che ci fanno riflettere su una serie di interrelazioni che stanno alla base dell’intero fenomeno:

1. ποιητής= poeta: l’autore qui dice di non essere un poeta “laureato”

2. ταιριάζω= adattare, collegare, mettere insieme. Si tratta di un’azione che, intesa in senso artistico, presuppone un alto grado di  elaborazione teorica, come se la produzione di versi fosse un qualcosa che si fa a tavolino. Immaginario collettivo del poeta che, seduto al suo tavolino, tiene davanti a sé gli strumenti del suo mestiere e si adopera in un lavoro di “taglio e cucito” sulle parole e i ritmi di esse.

3. ναργιλές= la fonte dell’ispirazione non è la musa, o un’idea superiore, bensì lo strumento che incarna l’atto della “fuga dalla realtà”, ottenuto attraverso l’assunzione di sostanze stupefacenti. Quindi il narghilè viene ad essere interpretato come “oggetto sacro”, capace di “ispirare”, di apportare il necessario “afflato artistico”.

4. κατασκευάζω = costruire, fabbricare. Usare un simile verbo, con una così forte connotazione pratica, fa capire che il rebetis non vede se stesso come poeta-creatore, ma piuttosto come artigiano-costruttore, che mette insieme parole e note, sotto l’influsso del narghilè.

 

[1] caratteristica della musica orientale sono i modi, una sorta di scale musicali che si organizzano intorno ad una nota di base, chiamata centro tonale, alla quale fanno riferimento le altre note).

*Intervista accordata a Stefanos Dimitriadis per PUNTO GRECIA

** Nel gennaio 2020 è uscito anche il volume in lingua greca Ζωή ‘ναι αυτή; Η κρίση στο ρεμπέτικο.146 τραγούδια: ανθολόγιο, ανάλυση, σχόλια + Γλωσσάρι, ETPBooks, Atene 2020.


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