Nel 1962, in occasione della presentazione di un’antologia delle sue poesie in greco, Montale si recherà ad Atene. Di questo suo viaggio, coinciso con le nozze regali di Sofia con Juan Carlos (“quando l’Almanacco di Gotha straripò dalle soffitte del King George”), narrerà poi nel suo poema Botta e Risposta III della Satura.

Destinataria di questa poesia, interlocutrice invisibile e scrittrice della “lettera da Kifissia”, a cui risponde Montale, è Margherita Dalmati (pseudonimo di Maria Niki Zoroyannidis), clavicembalista di fama mondiale, poetessa e traduttrice. Ed è a lei che scrive il poeta richiamando alla memoria l’esperienze del viaggio (“Tutto ricordo del tuo paese ”), e alludendo agli anni tumultuosi che seguirono la sua visita (“Già la pentola bolliva e a stento bolle ancora mentre scrivo”), che alla fine portarono al golpe dei colonnelli nel 1967. Un’ironia della sorte e della storia fece sì che il poema, datato 17 Novembre 1968 e pervaso dall’atmosfera malinconica di quei giorni, fu composto precisamente cinque anni prima della rivolta del Politecnico di Atene (17 Novembre 1973), che segnalò l’inizio della fine della dittatura.

BOTTA E RISPOSTA III

I
« Ηο riveduto il tetro dormitorio
dove ti rifugiasti quando l’Almanacco
di Gotha straripò dalle soffitte
del King George e fu impietoso al povero
malnato. Già la pentola bolliva
e a stento bolle ancora mentre scrivo.
Mi resta il clavicembalo arrivato
nuovo di zecca. Ha un suono dolce e quasi
attutisce (per poco) il borbottìo
di quel bollore. Meglio non rispondermi ».
 
(lettera da Kifissia)
 
II
 
Di quel mio primo rifugio
in non ricordo che le ombre
degli eucalipti; ma le altre,
le ombre che si nascondono
tra le parole, imprendibili,
mai palesate, mai scritte,
mai dette per intero,
le sole che non temono
contravvenzioni,
persecuzioni, manette,
non hanno né un prima né un dopo
perché sono l’essenza della memoria.
Hanno una forma di sopravvivenza
che non interessa la storia,
una presenza scaltra, un’asfissia che non è
solo dolore e penitenza.
 
Ε posso dirti senza orgoglio,
ma è inutile perché
in questo mi rassomigli,
che c’è tra il martire e il coniglio,
tra la galera e l’esilio,
un luogo dove l’inerme
lubrifica le sue armi,
poche ma durature.
 
Resistere al vincitore
merita plausi e coccarde,
resistere ai vinti quand’essi
si destano e sono i peggiori,
resistere al peggio che simula
il meglio vuol dire essere salvi
dall’infamia, scampati (ma è un inganno)
dal solo habitat respirabile
da chi pretende che esistere
sia veramente possibile.
 
Ricordo ancora l’ostiere
di Xilocastron, il menu
dove lessi barbunia, indovinai
ch’erano triglie e lo furono,
anche se marce, e mi parvero
un dono degli dèi. Tutto ricordo
del tuo paese, del suo mare, delle
sue capre, dei suoi uomini,
eredi inattendibili di un mondo
che s’impara sui libri ed era forse
orrendo come il nostro.
Io ero un nume
in abito turistico, qualcosa
come il Viandante della Tetralogia,
ma disarmato, innocuo, dissotterrato,
esportabile
di contrabbando da uno specialista.
Ma era pur sempre nel divino. Ora
vivo dentro due chiese che si spappolano,
dissacrate da sempre, mercuriali,
dove i pesci che a gara vi boccheggiano
sono del tutto eguali. Se non fosse
che la pietà è inesauribile eppure
è un intralcio di più, direi che è usata male.
Ma la merito anch’io? Lascio irrisolto
il problema, sigillo questa lettera
e la metto da parte. La ventura
e la censura hanno in comune solo
la rima. Ε non è molto.
 
Stefanos Dimitriadis | puntogrecia.gr